Da Cammillo Parrini a Gianni Anselmi: i gonfalonieri e i sindaci dell'Italia unita
Dal 1861 all'inizio del nuovo secolo
La spedizione dei Mille di Garibaldi condusse rapidamente alla costituzione, il 17 marzo 1861, del Regno d’Italia di cui la Toscana entrava a far parte.
La Toscana superava in maniera definitiva la nostalgie filogranducali, e Piombino doveva adeguarsi, mettendo da parte il ricordo delle aspettative legate al ruolo di capitale del principato di Elisa Bonaparte.
Al 1861 persiste per i comuni il quadro istituzionale leopoldino del 1849, destinato a restare operante fino all’ unificazione amministrativa del regno d’Italia del 1865, all’interno del quale gli organismi di governo locale erano costituiti da un magistrato comunitativo, dal consiglio generale e dal gonfaloniere, di nomina centrale.
Il gonfaloniere in carica al tempo era Cammillo Parrini, uno dei maggiorenti della città, appartenente al notabilato cittadino, come tutti coloro che potevano accedere alle cariche pubbliche. Con un editto del 16 marzo indiceva feste popolari per la proclamazione del re d’Italia, con una corsa di cavalli nel pomeriggio e illuminazione serale di abitazioni e pubblici edifici. Nel 1862 subentrava Teseo Cappellini, poi Giovanni Maresma.
All’entrata in vigore della legge comunale e provinciale del 1865, al posto dei gonfalonieri si insediarono i sindaci, capi dei Comuni e ufficiali di governo.
Di nomina regia come tutti i sindaci del nuovo Stato unitario, il primo sindaco del comune di Piombino, Giovanni Maresma, già gonfaloniere, nella prima adunanza della Giunta è invitato, e la spesa autorizzata, a comperarsi una fascia tricolore, in seta, “da portarsi cinta intorno ai fianchi”. Nel suo atto di morte del 1876, conservato nella parrocchia di S.Antimo, viene ricordato “sindaco di questa città”.
Seguirono, anche con incarichi (triennali) rinnovati più volte, Alessandro Gigli, Azzolino Celati, Camillo Parrini, Egidio Maresma, Bernardino Bertolozzi, Filippo Maresma nel 1895.
Nel 1889 il sistema elettorale allargato dalla riforma crispina aveva reso elettivo il sindaco, all’interno del consiglio comunale, limitatamente ai Comuni con più di 10.000 abitanti. Ma Piombino ne contava allora poco più di 5.900 ( e godevano del diritto di voto soltanto i maggiori di 21 anni, che sapessero leggere e scrivere, che pagassero almeno 5 lire di imposta l’anno, quindi gli elettori piombinesi risultavano soltanto poco più di 600!). Soltanto nel 1896, quando la legge estese anche ai Comuni con meno di 10.000 abitanti l’elettività dei sindaci, Piombino ne ebbe uno elettivo, Antonio Cappellini, poi Vanni Eugenio Desideri e Filippo Maresma, fino a quando il Comune fu conquistato dai socialisti, che vinsero le elezioni nel 1902. Terminava così quasi un quarantennio di nullismo politico, con un governo locale che rappresentava la borghesia agraria liberal monarchica, completamente dedito a curare i propri affari, sistematicamente assenteista durante le sedute di giunta e consiglio, per anni presiedute da facenti funzioni di sindaco.
Il periodo socialista: 1903-1923
La svolta dell’amministrazione cittadina fu la conseguenza dei mutamenti sociali ed economici introdotti con le nuove imprese siderurgiche, la crescita del movimento operaio, il rafforzamento della piccola borghesia, specialmente i commercianti, l’azione di propaganda di brillanti intellettuali, quali il medico Goffredo Iermini. Il primo sindaco socialista, Oreste Granelli, commerciante, governò fino al 1913. Seguì Giuseppe Bagni, quindi Luigi Giovannardi, il noto fotografo venuto da Firenze con gli anglo-fiorentini della Magona. Restò a Piombino e divenne il più affidabile testimone, attraverso le sue foto, del cinquantennio della vita pubblica e privata dei piombinesi, la cultura, la fabbrica, la politica. Il suo studio in piazza Gramsci si allunga ancora lungo la ferrovia, tuttora decifrabili le finestre sull’angolo a forma di obiettivo fotografico. Fu Giovannardi il sindaco del biennio rosso, delle lotte feroci contro il carovita del 1919 e della tragica serrata delle fabbriche del ’20. Pietro Gagliardi chiuse il periodo del governo socialista a Piombino, uno dei primi Comuni cui fu applicato un progetto amministrativo desunto dal Programma Minimo del congresso del Partito del 1895, ove “il Comune diviene la cosa di tutti”, e furono tentate sperimentazioni rivoluzionarie, le municipalizzazioni, l’ampliamento della gamma di studi scolastici, la riforma del sistema tributario, la costruzione di case popolari.
Il periodo fascista
L’elezione di Sabatino Mochi del ’23 apriva la strada al fascismo, protetto e sovvenzionato dalla dirigenza della grande industria. Quando nel 1926 venne applicato l’ordinamento comunale fascista, che prevedeva la nomina regia dei podestà che ereditavano le competenze di consiglio, giunta e sindaco, lo stesso Mochi divenne podestà nel nuovo sistema amministrativo; nel ’36 Alfredo Massart, nel ’40 Luigi Giannone.
Dal 1945 ai giorni nostri
Dopo la caduta del regime fascista gli alleati americani, attraverso la Allied Military Government, che deteneva provvisoriamente poteri prefettizi e ministeriali, nominarono il sindaco Luigi Terrosi Vignoli, seguito nel 1945 da Luciano Villani, prima nominato con decreto prefettizio, poi eletto nel ’46 con le prime elezioni reintrodotte dopo la resistenza e la liberazione. Gli anni Cinquanta, periodo di lotte politiche e scontri sociali durissimi, vedono a Piombino l’egemonia del Partito Comunista e dei suoi sindaci: dopo Villani, Ivo Mancini, e, a partire dagli anni Sessanta, Rodolfo Giovannelli, Rolando Tamburini, Enzo Polidori, Paolo Benesperi, Fabio Baldassarri. Anche con la legge elettorale del ’93, che introduce l’elezione diretta del sindaco, evidenziando il connotato di “super partes” del sindaco scelto anche all’esterno della lista di gradimento, la volontà popolare ha espresso il consenso per rappresentanti della sinistra: al primo eletto con il nuovo ordinamento comunale, Luciano Guerrieri, succedeva l’attuale, Gianni Anselmi.
A cura di Marisa Giachi, responsabile dell’archivio Storico della Città di Piombino